Era arrivato il momento.
In una piega della notte, di nascosto, fuori
dai clamori. Ora che le notizie erano
rientrate nel giornale che aveva letto fino
alla pagina dei film e poi ripiegato in
qualche modo. Stava scorrendo gli annunci
delle iniziative culturali per il week-end,
quando si era imbattuta nel suo nome.
Appariva all'interno di un trafiletto che
annunciava l'inaugurazione, nel cuore della
citta', di un nuovo polo museale che
comprendeva una Galleria d'arte
contemporanea di artisti italiani. Il museo
occupava gli spazi che una volta erano stati
gli uffici della Banca in cui lui aveva
lavorato per circa 40 anni. Era stato il suo
capo per sei mesi.
Lui. Un'emozione le era salita, o scesa,
dagli occhi al petto, dal cuore al cervello,
non sapeva in quale ordine, al suo ricordo.
Gli occhi le si erano riempiti di un mare
tiepido e salato e si era ritrovata di
fronte a un tramonto sul Tirreno, seduta
sulla riva a farsi bagnare piedi e gambe da
onde leggere. La notte sul quartiere
disegnato dai BBPR negli anni Sessanta, per
qualche istante, si era striata a occidente
di bagliori rossi, viola, arancioni, verdi.
Dopo essersi ripresa dallo sbalordimento,
aveva fatto spazio sul ripiano, confinando
La Repubblica sul bordo del tavolo. Era un
modello rotondo, di quelli che si vedevano
nelle case delle famiglie operaie, coperti
da tovaglie lavorate a uncinetto, al centro
di una sala da pranzo in finto stile
rinascimentale. La vernice nera opaca gli
aveva fatto supportare - e sopportare -
senza infamia ne' lode, vent'anni di segni. I
suoi, soprattutto. Lo aveva acquistato
all'IKEA l'anno prima di sposarsi, durante
il periodo di convivenza, insieme ad altri
pochi mobili e a una libreria a tre campate.
Era servito per pranzare, ma a fine serata
si era trasformato in banco di esperimenti
materici per i suoi interminabili esami
all'Accademia di Belle Arti. Di notte
diventava il suo "tavolino dello
psicoanalista", accogliendo impassibile i
suoi sogni di evasione, che si affollavano
in modo sempre piu' pressante mano a mano che
i silenzi matrimoniali si infittivano e a
cui a volte riusciva a dare forma scritta
sulle pagine di quadernetti dai piu' diversi
formati e rilegature.
Erano i suoi momenti piu' belli, quando si
ritrovava con la scrittura, che fluiva dalla
penna quasi senza interrompersi, come un
filo d'olio da un beccuccio sottile, oppure
spingeva impetuosamente da un rubinetto
aperto al massimo o da una cascata,
consapevole di avere davanti tutto il tempo
prima che l'ondata, la furia, la corrente,
che portava con se' desideri, segreti,
passioni riaccese e lacrime, iniziasse a
rallentare e poi a fermarsi. Questo
succedeva prima di riconoscere quanto fosse
piu' pratico scrivere con il programma Word.
Le finestre della palazzina ALER alla sua
destra erano tutte buie tranne una e
immaginava che in quello stesso istante
qualcuno stesse guardando nella sua
direzione. I gatti erano inquieti, non
smettevano di aggirarsi nella stanza facendo
strani versi, a tratti azzuffandosi,
probabilmente per l'insolita e prolungata
veglia. La radio trasmetteva imperterrita le
canzoni della sua gioventu', da vinili che
erano tornati di moda. Erano passate le due
e mezza ma ancora non sentiva arrivare il
coraggio.
Scrivere a un morto o per un morto,
rivolgendosi a lui vivo da viva, piu' che un
salto a ritroso nel tempo le sembrava una
pazzia. Eppure doveva ritrovarsi faccia a
faccia con lui. E sapere del Grande Rosso.
L'aveva conosciuto trent'anni prima, non era
uno scherzo. Pur essendo chiaro che la
possibilita' di un loro incontro era prossima
al nulla, per motivi oggettivi, si ritrovava,
suo malgrado, a pianificarlo. Se l'idea era
assurda, avrebbe almeno cercato di
realizzarla con un minimo di razionalita',
come in una lucida follia. Ora, pero', doveva
ricordare come tutto era iniziato. Aveva
cominciato a tracciare frasi su un foglio
senza righe, il primo che le era capitato
sottomano. Non c'era bisogno del computer e
poi ai suoi tempi non si usava. Ricordava
bene la sua scrittura minuta, appuntita, non
troppo regolare. Era elegante, a suo modo.
Nel bel mezzo della battitura le capitava di
interrompersi per decifrare alcune parole
che sembravano avere abdicato alla loro
funzione e stavano a fissarla, facendola
sentire la novellina che in realta' era.
Quando leggeva i suoi scritti, che doveva
battere a macchina per poi passarli alla
capufficio che li avrebbe fascicolati - di
fianco alla macchina da scrivere l'attendeva
ogni giorno una pila di cartelle - si
trovava puntualmente ad affrontare la specie
di ibridi di cui era disseminata la sua
scrittura. Si era formata un'idea
stravagante sul loro conto.
Tutto era iniziato per gioco, era stato un
espediente per combattere la routine del
lavoro ripetitivo. Ben presto, pero', aveva
iniziato a vedere strani incroci in quelle
parole illeggibili. Si era data delle
spiegazioni, immaginando che gli sgorbi
derivassero da processi di auto-riparazione
della scrittura, come se quest'ultima avesse
avuto una vita propria. Le ricordavano le
rimarginazioni inguardabili che mostravano i
soldati nei documentari dell'Istituto Luce
sulla prima guerra mondiale, per amputazioni
fatte in situazioni di emergenza. Aveva
continuato ad alimentare le sue fantasie
arricchendole di particolari minuziosi,
spingendosi a ricostruire le diverse fasi
delle metamorfosi che lei sola vedeva.
Succedeva piu' o meno cosi'. All'inizio, in
modo casuale, vedeva una sillaba sciogliersi,
dissolversi letteralmente, troncandosi nel
finale - ma poteva capitare anche nel mezzo
o all'inizio - come se fosse assorbita da
una falla che la faceva sprofondare nel
pozzo nero dove andavano a finire tutti i
segmenti scartati delle parole. Le mutazioni
che ne scaturivano derivavano dal
rinsaldarsi tra loro dei moncherini rimasti
tronchi.
Aveva persino dato una connotazione politica
a quel fenomeno e non era un fatto strano in
quegli anni di indiani metropolitani e di
ultimi rigurgiti di cultura underground.
Considerava la scomparsa volontaria di
sillabe e dittonghi come atti provocatori
che si consumavano a danno del placido,
ufficiale, noioso, troppo chiaro e ordinato
discorso che correva sulla superficie delle
pagine. Le trasformazioni alle quali
assisteva come testimone privilegiata,
rappresentavano ai suoi occhi una superiore
volonta' di creare intoppi nelle consuetudini
falsamente rassicuranti.
Questa narrazione aveva progressivamente
preso una sua autonoma vita e si era andata
auto-costruendo. Nina osservava correre le
parole liberate sul flusso di una creativita' anarchica, senza padrone, che dava vita a
pittogrammi enigmatici che stava a lei
interpretare e riportare a un ordine
dattiloscrivibile. Perche' proprio per questo
era pagata. Sentiva di stare affinando
qualita' creative insospettate per affrontare
al meglio il compito che le avevano affidato
e ne era orgogliosa. Eppure nessuno le aveva
mai esplicitamente richiesto cio' che la
stava impegnando cosi' a fondo.
Gli sforzi cui si sottoponeva per
comprendere cio' che sembrava intenzionato a
rimanerle oscuro, in certi giorni fungevano
da argine all'autocommiserazione che
minacciava di sommergerla e spronavano il
suo amor proprio a non cedere alle
difficolta'. Con il tempo avrebbe scoperto
che non le riusciva poi cosi' male decodificare le ostiche figure. Aveva
imparato a condurre con una certa abilita' una dura lotta di posizione e attacchi
decisivi verso la calligrafia del capo. Si
prospettava una battaglia di non breve
durata, che richiedeva prontezza nel
respingere veri e propri sabotaggi capaci di
bloccare l'intera catena di montaggio del
suo lavoro. Doveva riuscire a conservare
quel posto. Il mese precedente aveva
prelevato l'ultima banconota da 50.000 lire
dal libretto postale che sua madre le aveva
infilato di soppiatto nella borsetta, appena
aveva subodorato aria di crisi e con quella
aveva dato definitivamente fondo all'unica
riserva per le emergenze. Il 27 del mese era
ancora lontano.
La mattina in cui aveva telefonato per
l'annuncio era reduce dalla stagione estiva
passata come cameriera di sala presso
l'Hotel Sirena al Lido di Camaiore e al
momento non aveva altro in vista. Per
tranquillizzare i suoi aveva annunciato di
essere stata selezionata al concorso per
dattilografe part-time a cui aveva
partecipato qualche mese prima al Pirellone.
Aveva anche fornito dettagli credibili,
annunciando trionfalmente che tutti i
candidati avrebbero ricevuto a breve un
avviso di convocazione, dato che si erano
presentati in numero inferiore alla
richiesta di personale. Sua madre non le era
sembrata del tutto convinta - era un'infallibile macchina della
verita' - e da
come poi si erano messe le cose, non aveva
avuto tutti i torti. La convocazione in
effetti era arrivata ma dieci anni dopo,
quando un insperato contratto a tempo
indeterminato aveva messo un punto allo
stream of consciousness del suo precariato.
A quel punto, pero', l'indimenticabile
capitolo della Banca se l'era gettato alle
spalle da un pezzo. Quella volta, tra
l'altro, aveva taciuto il particolare che
nella graduatoria del concorso il suo nome
appariva quasi in fondo alla lista.
Le sue bugie si erano dimostrate precauzioni
inutili, appena dette scivolavano in un
oblio generale. Da quando aveva iniziato a
frequentare il liceo serale a Milano, che le
suore le avevano sconsigliato vivamente
perche' lo ritenevano un pericoloso luogo di
perdizione, i suoi avevano smesso di farsi
illusioni sul suo conto, come se fosse una
figlia ormai perduta.
Alla fine degli anni Settanta anche a Milano
non si trovava piu' lavoro con la stessa
facilita' che agli inizi del decennio. Uscita
a sedici anni dal biennio della scuola
professionale delle suore salesiane, si era
traghettata dal polveroso studio di un
decrepito avvocato a quello di un rampante
procuratore democristiano. Aveva salpato nel
moderno studio di un team di avvocati di
Soccorso Rosso in corso Europa. Era finita
nelle strette maglie di un celebre studio
associato di formazione aziendale in piazza
De Angeli. Era stata presa all'amo da un
grasso commercialista di via Ravizza che le
faceva trascrivere a mano libri contabili e
verbali societari. Infine era approdata nel
magazzino di una ditta belga di strumenti
acustici di precisione, in via Ripamonti.
Nei suoi primi tre anni di lavoro non aveva
collezionato nemmeno un giorno di
disoccupazione, anche se era stata spesso
costretta a dare le dimissioni per non
sapere assolvere in modo soddisfacente le
mansioni richieste per la sua posizione. Piu'
o meno le comunicavano questo a voce e in
genere nessuno si era mai azzardato a
consegnarle una lettera di licenziamento per
non rischiare una vertenza legale da parte
del sindacato. Ed era stato grazie a una
vertenza promossa contro il proprietario
dell'Hotel Sirena, che insieme al contratto
di assunzione le aveva fatto firmare un
foglio di dimissioni in bianco, che aveva
potuto vivere di rendita per un altro paio
di mesi dopo avere terminato la stagione
estiva.
Durante il canonico mese di preavviso, Nina
trovava comunque e senza grandi difficolta'
un nuovo posto attraverso il passaparola tra
colleghe o amiche e qualche volta anche
grazie a conoscenti del datore di lavoro di
turno che l'aveva invitata a dimettersi. Il
suo salto di qualita' l'avrebbe fatto, pero',
solo alla fine degli anni '80, quando,
liberatasi dal giogo del lavoro d'ufficio,
cui non era evidentemente portata, sarebbe
stata assunta come commessa nella libreria
della casa editrice musicale di Pietro
Sugar, il marito di Caterina Caselli, che si
trovava in corso Vittorio Emanuele,
all'angolo con la Galleria del Corso. Quel
mitico emporio a piu' piani, dove si potevano
trovavare spartiti, strumenti musicali,
dischi e libri anche in lingua, avrebbe in
seguito ospitato il negozio di vestiti
Mango.
L'elettrica Lettera 36 taceva da un tempo
preoccupantemente indeterminato e Nina
Rovere, impiegata di terzo livello in prova
alla sede centrale della Banca Nazionale del
Commercio, fissava con sguardo attonito la
grigia e spessa cortina calata sul foglio
inserito nel rullo, da cui sporgeva per meno
della meta' e che la barretta a molla teneva
inutilmente bloccato. Tutte le parole erano
state avvolte da una nebbia maligna che le
aveva contagiate. Era lo sciopero generale.
La scrittura, l'amica e sorella, quella che
l'aveva sostenuta e confortata fin dalla
preadolescenza, prestandosi alle sue
inconfessabili confessioni diaristiche sugli
amori segreti, le aveva voltato le spalle
proprio nel momento del bisogno. Non aveva
retto alla prova della realta', si era
mascherata, rivelando la sua parte oscura e
cattiva. Le aveva persino sibilato
all'orecchio che fino ad allora era stato
tutto uno scherzo. Cosi' Nina si era sentita
vittima di un crudele, inaspettato
voltafaccia. "Il lavoro e' una cosa, i sogni
altro" le aveva sibilato all'orecchio la
traditrice, riaprendo nel suo cuore una
vecchia ferita, per poi calare pesantemente
e cinicamente su di se' una lastra marmorea
di ottusa indifferenza.
Era tutta colpa di quella, dei suoi
fantomatici complotti e se aveva un fine
nascosto, un giorno lo avrebbe scoperto.
Eppure c'era lui, dietro alla scrittura e
alle parole, era lui la causa prima dei suoi
smarrimenti, con il ritmo frettoloso e a
scatti della sua mano, preso
nell'inseguimento di chissa' quali calcoli o
chimere e dalla sua furia di assolvere in
tempo impegni presi o, chissa', per assecondare inconfessabili impulsi. Lui era
il vero artefice degli incidenti che si
consumavano sul rullo della macchina da
scrivere davanti alla quale era costretta a
sedere per la maggior parte delle otto ore
di lavoro. Ma non ne era poi cosi' convita.
Sentiva, piuttosto, che anche questa volta
stava rischiando il posto e non per sua
incompetenza, come era successo al suo
secondo impiego quando, per giustificare il
mancato rinnovo del contratto dopo il
periodo dell'apprendistato, l'avvocato
procuratore Porrone le aveva rivolto con
noncuranza un paio di frasi ad effetto, che
le erano rimaste impresse in modo indelebile:
"Mi dispiace, signorina, ma lei qui e' sprecata. Dovrebbe cercarsi un lavoro
piu' adatto a lei.. piu' artistico!".
Nel caso specifico si trattava solo di una
stupida e banale difficolta' nel leggere la
calligrafia del capo, questa volta non erano
in discussione le sue capacita' professionali.
Certo, aveva fatto molti salti pindarici per
non ammettere che si trovava davanti alla
tipica, incomprensibile, frettolosa grafia
comune a medici o persone introverse. Poteva
darsi che lei avesse voluto sentirsi a tutti
i costi all'altezza delle richieste. In ogni
caso non c'era piu' tempo per i distinguo, se
non voleva vedersi a spasso un'altra volta,
si trattasse o meno dei colpi mancini della
voltagabbana, delle svenevoli messinscena di
lettere che si lasciavano andare alla deriva
o scivolare da una rupe a intervalli
apparentemente casuali ma sicuramente ben
studiati a tavolino.
In quegli anni di feroce terrorismo l'aria
era ancora impregnata degli echi sfocati
della precedente stagione politica
sessantottina, delle sue idee
romantico-rivoluzionarie dure a morire - del
tipo sous le pave's, la plage! - che parevano
stranamente addirsi al suo caso. Le sembrava
che i buchi bianchi di cui erano disseminate
le cartelle passate a macchina, che alla
fine della giornata impilava alla sua
sinistra - una ben misera pila, rispetto a
quelle che l'aspettavano sulla destra -
partecipassero a modo loro alla tarda
stagione rivoluzionaria, con allusioni,
rimandi, ammiccamenti a un altrove, a forme
di vita germinali, probabilmente piu' accomodanti ed elastiche, meno etichettabili,
fuori dalle gabbie consuete della
quotidianita'. Le mancanze, le assenze,
testimoniavano che laggiu' - la'-bas - le
parole sapevano chiudere un occhio, come qui
- ici - di rado succede. Fantasticava
attorno a un Lost Paradise degli errori,
un'isola misteriosa verso la quale avrebbe
desiderato fuggire e in cui rimanere
nascosta per sempre.
Come avrebbe spiegato tutto questo alla
capufficio, che con malcelata soddisfazione
correggeva con la matita rossa le veline dei
suoi dattiloscritti - in quegli anni era
prassi battere l'originale mettendovi sotto
carta carbone e velina - cosi' che per
rimediare, doveva dare prova di precisione
certosina reinfilando il foglio nel rullo,
alzando la barretta per riallineare la riga
di battitura, centrando poi la parte
mancante o sbagliata, ribattendo quindi la
lettera da cancellare con la striscia
correttiva finche' non scompariva, per vedere
infine emergere, nera su bianco, la
pecorella tornata all'ovile - un'altra
pecora nera, come le massesi, le uniche
femmine che hanno le corna e purtroppo a
rischio estinzione visto che non ne viene
usata la lana - la neghittosa vocale o
consonante corretta, che riconduceva la
frase al suo senso?
Se ci fosse stato il computer, quel
laborioso processo le sarebbe stato
risparmiato. Le era anche capitato di
chiedersi se dietro quegli ostacoli
disseminati come mine sul suo periodo di
prova, una sorta di iniziazione, non si
nascondesse piuttosto un suo invito
dissimulato. Ancora non lo aveva visto, non
si erano parlati.
"Aiutatevi con la lettura del contesto",
cosi' la prof. Chantal spronava i suoi alunni
quando li vedeva interrogare il vuoto con
occhi opachi e spenti. A Nina era capitato
di ricorrere al metodo che l'insegnante non
mancava di suggerire durante le verifiche ma
quel salvagente non era sempre stato utile
per traghettarla alla riva del 6 pieno. Quel
giorno, invece, tutte le parole che
mancavano all'appello della comprensione si
mostravano, a dispetto dei consigli della
prof, assolutamente indipendenti dal
contesto.
Erano parole gappiste, pensate per una
strenua resistenza a tentativi di
decifrazione. Parole rampanti, scelte
accuratamente nel corso di drammatici
breathing. Parole nichiliste che si
divertivano a giocare alla roulette russa in
scantinati saturi di fumo e tensione. Parole
carbonare, che si riunivano in elitari
salotti letterari complottanti. Le elette
venivano selezionate da un ventaglio tra le
piu' ostiche e votate per acclamazione: erano
le perfide regine, le kamikaze, le piu' inattaccabili a interpretazioni dal contesto
- i buonisti contesti! non mancherebbe
qualcuno di deplorare - le amazzoni, le
provate teste di cuoio per non dire di
peggio, le piu' abili nel saper recintare di
fitto filo spinato il minimo varco di
interpretazione intuitiva. In che situazione
si era mai cacciata? Ricordava che
l'annuncio sul Corriere della Sera recitava
chiaro:
L'insperata fortuna - al colloquio di
selezione avevano chiuso un occhio
sull'ottimo inglese - l'aveva riportata in
una stanza d'archivio, proprio come ai suoi
esordi. In un luogo a lei familiare - tutte
le stanze d'archivio in cui era transitata
si assomigliavano in modo impressionante,
con le loro alte finestre opache per la
polvere solidificata negli anni, scrivanie e
scaffali che potevano abbracciare un periodo
compreso tra gli anni Quaranta e i Sessanta,
evidenti scarti dei piani alti, anonimi
armadi metallici con schedari estraibili -
si ritrovava a impersonare l'inedito ruolo
di domatrice di un corsivo a tratti
illeggibile, con il compito di riportare la
bestia in gabbia, dopo averla ammansita nel
font della Lettera 36, un modello che fino a
un paio di anni prima era considerato a' la
page e di cui ora, con malcelato disappunto,
si diceva che faceva solo un gran baccano.
Ricordava il suo incantamento davanti al
rutilante tocca e fuggi delle minuscole
lettere sulla testina rotante della sua
prima IBM Selectric, che impazzavano sul
foglio nel corso di fragorose e a tratti
all'unisono, battiture a piu' mani nella
stessa stanza. Solo dopo un apprendistato di
anni, nel suo caso iniziato su un
rispettabile catafalco nero, una Underwood
del 1920 diventato probabilmente un pezzo
per collezionisti, con tasti cosi' alti che
andavano non solo pigiati con forza, ma
anche centrati bene per non incastrarvi in
mezzo le dita, aveva avuto il privilegio di
potere digitare con movimenti veloci e
leggeri sulle lettere di una macchina
elettrica.
Intanto quella continuava a comandare nella
stanza, a provocarla con i suoi capricci da
diva, almeno fino a che non si fosse decisa
a smascherarla. La sfidava attraverso alteri,
desueti, specialistici termini che non
mostravano di temere l'opposta alternativa
del tutto o niente e che senza un fremito
d'emozione, venendo alla luce, contemplavano
il loro prossimo annullamento oltre
l'orizzonte di senso, il tuffo dalla rupe
contro un oceano di bianco inchiostro, che
le avrebbe assorbite per sempre in un oblio
di fonemi, in una versione nichilista da
inconscio letterario o che, al contrario,
sognavano un destino di gloria, come essere
incise nel marmo della memoria per le future
generazioni. In tutti i casi loro - e ci
faceva entrare scrittura, grafia, lettere,
parole - mostravano di non avere nulla da
perdere. Gli altri e Nina per prima, erano
semplici scrivani.
Al suo ottavo giorno sentiva gia' bruciare la
sconfitta, anche se non avrebbe mai
rinunciato a quell'incarico, mentre
assisteva rassegnata e impotente
all'andirivieni delle parole che a loro
piacimento si incastonavano nelle righe,
interrompendo improvvisamente il movimento
orizzontale dei suoi occhi. Per quanto la
riguardava, quei righi imbizzarriti potevano
continuare a vagare come fantasmi, farsi
invisibili dentro vuote nuvolette e peggio
per lei se a causa loro avesse continuato a
consegnare dattiloscritti intervallati da
buchi e vuoti. Se stavano inscenando un
suicidio collettivo, sarebbe affondata con
loro. Ma le cose non andarono precisamente
in quel modo.
Da qualche tempo, infatti, Nina aveva
iniziato a dubitare dell'aria di vocazione
al martirio - ma non era il suo, piuttosto?
- che quelle sbandieravano. "Il troppo
stroppia" le ripeteva sua madre in dialetto
pugliese. Eppure non si sentiva cosi'
sprovveduta, era sicura di essere vicina a
un passaggio segreto.
Presa nel turbine di una lotta semi
cosciente fatta di assalti, cedimenti,
retrocessioni, nella sua caparbia resistenza
per arrivare al traguardo del mese di prova
dopo il quale, per altri cinque, avrebbe
potuto navigare in acque piu' calme, eludeva
il soggetto piu' importante. Di questo invece,
la scrittura, con la sua esperienza
millenaria, sembrava essere ben consapevole,
pur nei suoi atteggiamenti da primadonna. Il
gioco, pero', non era destinato a durare, la
lezione di Luigi Pirandello non sembrava
trascorsa invano.
C'era di nuovo che Nina stava iniziando ad
assumere una parte da protagonista in quel
melodramma di
lettura-interpretazione-battitura, anche se
a uno sguardo esterno lei sicuramente
appariva come un mero strumento al servizio
dell'Autore. Memore di un'infarinatura di
Storia del Teatro, sentiva di essersi
immedesimata piu' del dovuto nel senso delle
parole che il capo dirigeva dietro le quinte
ma a quel punto toccava a lei prendere il
suo posto.
La sua conoscenza del mondo dell'arte si
limitava a quanto studiato al liceo serale
sui volumi dell'Argan che le aveva regalato
il suo ragazzo quando aveva compiuto
diciotto anni. Aveva iniziato a frequentare
il liceo serale con due anni di ritardo, a
causa del biennio professionale per
operatrici contabili stenodattilografe a cui
il padre l'aveva iscritta dopo le medie e
che aveva considerato tempo sprecato.
Non aveva ancora sentito parlare
dell'artista Emilio Isgro', che con un
pennellino nero in quegli anni stava
cancellando tutti i libri che gli capitavano
a tiro: bibbie, corani, costituzioni, talmud,
ma anche enciclopedie, telex e codici civili.
Nina si ritrovava in una situazione opposta
a quella dell'artista visivo: disseminava le
righe scritte di spazi bianchi, sebbene in
modo non volontario. Avrebbe potuto creare
un nuovo genere di opere se ne fosse stata
consapevole e un giorno, chissa', un vero
artista se ne sarebbe preso il merito.
Che fosse stata una messinscena, lo
sospettava da un po'. Qualcuno aveva voluto
metterla alla prova, ben oltre il mese
previsto dal contratto. Forse era stato lui,
d'intesa con la capufficio, a pianificare il
tutto. Dovevano averla spiata da buchi
posizionati strategicamente sulle pareti,
nelle ore in cui veniva distaccata in
archivio. Per mimetizzarli forse li avevano
nascosti dietro a un Concetto spaziale di
Fontana, quello con i buchi che disegnavano
una spirale o sotto le Attese a cinque tagli.
Per vederla meglio.
Pur sospettando di essere controllata, aveva
continuato a interrogare silenziosamente i
sempre inediti e incomprensibili segni
stenografici che la sfidavano ad essere
battuti, emissari di un'aliena accademia
linguistica, affiliati di un'associazione
massonica sottocutanea della Lingua, deviati
colonnelli in pensione di servizi
ortografici segreti o storpiature
dell'ufficiale dizionario De Mauro, messo
troppo presto in pensione. C'era pero' un
fatto nuovo, lo sentiva come quando annusava
l'aria di primavera con un mese di anticipo:
la sua costanza l'avrebbe presto premiata.
Arrivata al venticinquesimo giorno di prova,
mancavano ancora mercoledi', giovedi' e
venerdi' a quello che avrebbe deciso la sua
sorte. Con il fine settimana il suo stato
ansiogeno sarebbe evaporato e, come nella
scena finale del pozzo e il pendolo,
all'ultimo momento sarebbe stata liberata
dalla tortura e il lunedi' avrebbe segnato
l'inizio della sua navigazione col vento in
poppa. Anche se non ne era ancora cosi' certa.
* * * * * * * *
primo capitolo | Grande Rosso - scrivere |
secondo capitolo | Grande Rosso - lavorare |