Un libro in corso di scrittura di Rosanna Schiattone
 

Era arrivato il momento.
In una piega della notte, di nascosto, fuori dai clamori. Ora che le notizie erano rientrate nel giornale che aveva letto fino alla pagina dei film e poi ripiegato in qualche modo. Stava scorrendo gli annunci delle iniziative culturali per il week-end, quando si era imbattuta nel suo nome. Appariva all'interno di un trafiletto che annunciava l'inaugurazione, nel cuore della citta', di un nuovo polo museale che comprendeva una Galleria d'arte contemporanea di artisti italiani. Il museo occupava gli spazi che una volta erano stati gli uffici della Banca in cui lui aveva lavorato per circa 40 anni. Era stato il suo capo per sei mesi.
Lui. Un'emozione le era salita, o scesa, dagli occhi al petto, dal cuore al cervello, non sapeva in quale ordine, al suo ricordo. Gli occhi le si erano riempiti di un mare tiepido e salato e si era ritrovata di fronte a un tramonto sul Tirreno, seduta sulla riva a farsi bagnare piedi e gambe da onde leggere. La notte sul quartiere disegnato dai BBPR negli anni Sessanta, per qualche istante, si era striata a occidente di bagliori rossi, viola, arancioni, verdi.
Dopo essersi ripresa dallo sbalordimento, aveva fatto spazio sul ripiano, confinando La Repubblica sul bordo del tavolo. Era un modello rotondo, di quelli che si vedevano nelle case delle famiglie operaie, coperti da tovaglie lavorate a uncinetto, al centro di una sala da pranzo in finto stile rinascimentale. La vernice nera opaca gli aveva fatto supportare - e sopportare - senza infamia ne' lode, vent'anni di segni. I suoi, soprattutto. Lo aveva acquistato all'IKEA l'anno prima di sposarsi, durante il periodo di convivenza, insieme ad altri pochi mobili e a una libreria a tre campate. Era servito per pranzare, ma a fine serata si era trasformato in banco di esperimenti materici per i suoi interminabili esami all'Accademia di Belle Arti. Di notte diventava il suo "tavolino dello psicoanalista", accogliendo impassibile i suoi sogni di evasione, che si affollavano in modo sempre piu' pressante mano a mano che i silenzi matrimoniali si infittivano e a cui a volte riusciva a dare forma scritta sulle pagine di quadernetti dai piu' diversi formati e rilegature.
Erano i suoi momenti piu' belli, quando si ritrovava con la scrittura, che fluiva dalla penna quasi senza interrompersi, come un filo d'olio da un beccuccio sottile, oppure spingeva impetuosamente da un rubinetto aperto al massimo o da una cascata, consapevole di avere davanti tutto il tempo prima che l'ondata, la furia, la corrente, che portava con se' desideri, segreti, passioni riaccese e lacrime, iniziasse a rallentare e poi a fermarsi. Questo succedeva prima di riconoscere quanto fosse piu' pratico scrivere con il programma Word.
Le finestre della palazzina ALER alla sua destra erano tutte buie tranne una e immaginava che in quello stesso istante qualcuno stesse guardando nella sua direzione. I gatti erano inquieti, non smettevano di aggirarsi nella stanza facendo strani versi, a tratti azzuffandosi, probabilmente per l'insolita e prolungata veglia. La radio trasmetteva imperterrita le canzoni della sua gioventu', da vinili che erano tornati di moda. Erano passate le due e mezza ma ancora non sentiva arrivare il coraggio.
Scrivere a un morto o per un morto, rivolgendosi a lui vivo da viva, piu' che un salto a ritroso nel tempo le sembrava una pazzia. Eppure doveva ritrovarsi faccia a faccia con lui. E sapere del Grande Rosso.
L'aveva conosciuto trent'anni prima, non era uno scherzo. Pur essendo chiaro che la possibilita' di un loro incontro era prossima al nulla, per motivi oggettivi, si ritrovava, suo malgrado, a pianificarlo. Se l'idea era assurda, avrebbe almeno cercato di realizzarla con un minimo di razionalita', come in una lucida follia. Ora, pero', doveva ricordare come tutto era iniziato. Aveva cominciato a tracciare frasi su un foglio senza righe, il primo che le era capitato sottomano. Non c'era bisogno del computer e poi ai suoi tempi non si usava. Ricordava bene la sua scrittura minuta, appuntita, non troppo regolare. Era elegante, a suo modo.

Nel bel mezzo della battitura le capitava di interrompersi per decifrare alcune parole che sembravano avere abdicato alla loro funzione e stavano a fissarla, facendola sentire la novellina che in realta' era.
Quando leggeva i suoi scritti, che doveva battere a macchina per poi passarli alla capufficio che li avrebbe fascicolati - di fianco alla macchina da scrivere l'attendeva ogni giorno una pila di cartelle - si trovava puntualmente ad affrontare la specie di ibridi di cui era disseminata la sua scrittura. Si era formata un'idea stravagante sul loro conto.
Tutto era iniziato per gioco, era stato un espediente per combattere la routine del lavoro ripetitivo. Ben presto, pero', aveva iniziato a vedere strani incroci in quelle parole illeggibili. Si era data delle spiegazioni, immaginando che gli sgorbi derivassero da processi di auto-riparazione della scrittura, come se quest'ultima avesse avuto una vita propria. Le ricordavano le rimarginazioni inguardabili che mostravano i soldati nei documentari dell'Istituto Luce sulla prima guerra mondiale, per amputazioni fatte in situazioni di emergenza. Aveva continuato ad alimentare le sue fantasie arricchendole di particolari minuziosi, spingendosi a ricostruire le diverse fasi delle metamorfosi che lei sola vedeva.
Succedeva piu' o meno cosi'. All'inizio, in modo casuale, vedeva una sillaba sciogliersi, dissolversi letteralmente, troncandosi nel finale - ma poteva capitare anche nel mezzo o all'inizio - come se fosse assorbita da una falla che la faceva sprofondare nel pozzo nero dove andavano a finire tutti i segmenti scartati delle parole. Le mutazioni che ne scaturivano derivavano dal rinsaldarsi tra loro dei moncherini rimasti tronchi.
Aveva persino dato una connotazione politica a quel fenomeno e non era un fatto strano in quegli anni di indiani metropolitani e di ultimi rigurgiti di cultura underground. Considerava la scomparsa volontaria di sillabe e dittonghi come atti provocatori che si consumavano a danno del placido, ufficiale, noioso, troppo chiaro e ordinato discorso che correva sulla superficie delle pagine. Le trasformazioni alle quali assisteva come testimone privilegiata, rappresentavano ai suoi occhi una superiore volonta' di creare intoppi nelle consuetudini falsamente rassicuranti.
Questa narrazione aveva progressivamente preso una sua autonoma vita e si era andata auto-costruendo. Nina osservava correre le parole liberate sul flusso di una creativita' anarchica, senza padrone, che dava vita a pittogrammi enigmatici che stava a lei interpretare e riportare a un ordine dattiloscrivibile. Perche' proprio per questo era pagata. Sentiva di stare affinando qualita' creative insospettate per affrontare al meglio il compito che le avevano affidato e ne era orgogliosa. Eppure nessuno le aveva mai esplicitamente richiesto cio' che la stava impegnando cosi' a fondo.
Gli sforzi cui si sottoponeva per comprendere cio' che sembrava intenzionato a rimanerle oscuro, in certi giorni fungevano da argine all'autocommiserazione che minacciava di sommergerla e spronavano il suo amor proprio a non cedere alle difficolta'. Con il tempo avrebbe scoperto che non le riusciva poi cosi' male decodificare le ostiche figure. Aveva imparato a condurre con una certa abilita' una dura lotta di posizione e attacchi decisivi verso la calligrafia del capo. Si prospettava una battaglia di non breve durata, che richiedeva prontezza nel respingere veri e propri sabotaggi capaci di bloccare l'intera catena di montaggio del suo lavoro. Doveva riuscire a conservare quel posto. Il mese precedente aveva prelevato l'ultima banconota da 50.000 lire dal libretto postale che sua madre le aveva infilato di soppiatto nella borsetta, appena aveva subodorato aria di crisi e con quella aveva dato definitivamente fondo all'unica riserva per le emergenze. Il 27 del mese era ancora lontano.
La mattina in cui aveva telefonato per l'annuncio era reduce dalla stagione estiva passata come cameriera di sala presso l'Hotel Sirena al Lido di Camaiore e al momento non aveva altro in vista. Per tranquillizzare i suoi aveva annunciato di essere stata selezionata al concorso per dattilografe part-time a cui aveva partecipato qualche mese prima al Pirellone. Aveva anche fornito dettagli credibili, annunciando trionfalmente che tutti i candidati avrebbero ricevuto a breve un avviso di convocazione, dato che si erano presentati in numero inferiore alla richiesta di personale. Sua madre non le era sembrata del tutto convinta - era un'infallibile macchina della verita' - e da come poi si erano messe le cose, non aveva avuto tutti i torti. La convocazione in effetti era arrivata ma dieci anni dopo, quando un insperato contratto a tempo indeterminato aveva messo un punto allo stream of consciousness del suo precariato. A quel punto, pero', l'indimenticabile capitolo della Banca se l'era gettato alle spalle da un pezzo. Quella volta, tra l'altro, aveva taciuto il particolare che nella graduatoria del concorso il suo nome appariva quasi in fondo alla lista.
Le sue bugie si erano dimostrate precauzioni inutili, appena dette scivolavano in un oblio generale. Da quando aveva iniziato a frequentare il liceo serale a Milano, che le suore le avevano sconsigliato vivamente perche' lo ritenevano un pericoloso luogo di perdizione, i suoi avevano smesso di farsi illusioni sul suo conto, come se fosse una figlia ormai perduta.

Alla fine degli anni Settanta anche a Milano non si trovava piu' lavoro con la stessa facilita' che agli inizi del decennio. Uscita a sedici anni dal biennio della scuola professionale delle suore salesiane, si era traghettata dal polveroso studio di un decrepito avvocato a quello di un rampante procuratore democristiano. Aveva salpato nel moderno studio di un team di avvocati di Soccorso Rosso in corso Europa. Era finita nelle strette maglie di un celebre studio associato di formazione aziendale in piazza De Angeli. Era stata presa all'amo da un grasso commercialista di via Ravizza che le faceva trascrivere a mano libri contabili e verbali societari. Infine era approdata nel magazzino di una ditta belga di strumenti acustici di precisione, in via Ripamonti.
Nei suoi primi tre anni di lavoro non aveva collezionato nemmeno un giorno di disoccupazione, anche se era stata spesso costretta a dare le dimissioni per non sapere assolvere in modo soddisfacente le mansioni richieste per la sua posizione. Piu' o meno le comunicavano questo a voce e in genere nessuno si era mai azzardato a consegnarle una lettera di licenziamento per non rischiare una vertenza legale da parte del sindacato. Ed era stato grazie a una vertenza promossa contro il proprietario dell'Hotel Sirena, che insieme al contratto di assunzione le aveva fatto firmare un foglio di dimissioni in bianco, che aveva potuto vivere di rendita per un altro paio di mesi dopo avere terminato la stagione estiva.
Durante il canonico mese di preavviso, Nina trovava comunque e senza grandi difficolta' un nuovo posto attraverso il passaparola tra colleghe o amiche e qualche volta anche grazie a conoscenti del datore di lavoro di turno che l'aveva invitata a dimettersi. Il suo salto di qualita' l'avrebbe fatto, pero', solo alla fine degli anni '80, quando, liberatasi dal giogo del lavoro d'ufficio, cui non era evidentemente portata, sarebbe stata assunta come commessa nella libreria della casa editrice musicale di Pietro Sugar, il marito di Caterina Caselli, che si trovava in corso Vittorio Emanuele, all'angolo con la Galleria del Corso. Quel mitico emporio a piu' piani, dove si potevano trovavare spartiti, strumenti musicali, dischi e libri anche in lingua, avrebbe in seguito ospitato il negozio di vestiti Mango.

L'elettrica Lettera 36 taceva da un tempo preoccupantemente indeterminato e Nina Rovere, impiegata di terzo livello in prova alla sede centrale della Banca Nazionale del Commercio, fissava con sguardo attonito la grigia e spessa cortina calata sul foglio inserito nel rullo, da cui sporgeva per meno della meta' e che la barretta a molla teneva inutilmente bloccato. Tutte le parole erano state avvolte da una nebbia maligna che le aveva contagiate. Era lo sciopero generale.
La scrittura, l'amica e sorella, quella che l'aveva sostenuta e confortata fin dalla preadolescenza, prestandosi alle sue inconfessabili confessioni diaristiche sugli amori segreti, le aveva voltato le spalle proprio nel momento del bisogno. Non aveva retto alla prova della realta', si era mascherata, rivelando la sua parte oscura e cattiva. Le aveva persino sibilato all'orecchio che fino ad allora era stato tutto uno scherzo. Cosi' Nina si era sentita vittima di un crudele, inaspettato voltafaccia. "Il lavoro e' una cosa, i sogni altro" le aveva sibilato all'orecchio la traditrice, riaprendo nel suo cuore una vecchia ferita, per poi calare pesantemente e cinicamente su di se' una lastra marmorea di ottusa indifferenza.
Era tutta colpa di quella, dei suoi fantomatici complotti e se aveva un fine nascosto, un giorno lo avrebbe scoperto. Eppure c'era lui, dietro alla scrittura e alle parole, era lui la causa prima dei suoi smarrimenti, con il ritmo frettoloso e a scatti della sua mano, preso nell'inseguimento di chissa' quali calcoli o chimere e dalla sua furia di assolvere in tempo impegni presi o, chissa', per assecondare inconfessabili impulsi. Lui era il vero artefice degli incidenti che si consumavano sul rullo della macchina da scrivere davanti alla quale era costretta a sedere per la maggior parte delle otto ore di lavoro. Ma non ne era poi cosi' convita.
Sentiva, piuttosto, che anche questa volta stava rischiando il posto e non per sua incompetenza, come era successo al suo secondo impiego quando, per giustificare il mancato rinnovo del contratto dopo il periodo dell'apprendistato, l'avvocato procuratore Porrone le aveva rivolto con noncuranza un paio di frasi ad effetto, che le erano rimaste impresse in modo indelebile: "Mi dispiace, signorina, ma lei qui e' sprecata. Dovrebbe cercarsi un lavoro piu' adatto a lei.. piu' artistico!".
Nel caso specifico si trattava solo di una stupida e banale difficolta' nel leggere la calligrafia del capo, questa volta non erano in discussione le sue capacita' professionali. Certo, aveva fatto molti salti pindarici per non ammettere che si trovava davanti alla tipica, incomprensibile, frettolosa grafia comune a medici o persone introverse. Poteva darsi che lei avesse voluto sentirsi a tutti i costi all'altezza delle richieste. In ogni caso non c'era piu' tempo per i distinguo, se non voleva vedersi a spasso un'altra volta, si trattasse o meno dei colpi mancini della voltagabbana, delle svenevoli messinscena di lettere che si lasciavano andare alla deriva o scivolare da una rupe a intervalli apparentemente casuali ma sicuramente ben studiati a tavolino.
In quegli anni di feroce terrorismo l'aria era ancora impregnata degli echi sfocati della precedente stagione politica sessantottina, delle sue idee romantico-rivoluzionarie dure a morire - del tipo sous le pave's, la plage! - che parevano stranamente addirsi al suo caso. Le sembrava che i buchi bianchi di cui erano disseminate le cartelle passate a macchina, che alla fine della giornata impilava alla sua sinistra - una ben misera pila, rispetto a quelle che l'aspettavano sulla destra - partecipassero a modo loro alla tarda stagione rivoluzionaria, con allusioni, rimandi, ammiccamenti a un altrove, a forme di vita germinali, probabilmente piu' accomodanti ed elastiche, meno etichettabili, fuori dalle gabbie consuete della quotidianita'. Le mancanze, le assenze, testimoniavano che laggiu' - la'-bas - le parole sapevano chiudere un occhio, come qui - ici - di rado succede. Fantasticava attorno a un Lost Paradise degli errori, un'isola misteriosa verso la quale avrebbe desiderato fuggire e in cui rimanere nascosta per sempre.
Come avrebbe spiegato tutto questo alla capufficio, che con malcelata soddisfazione correggeva con la matita rossa le veline dei suoi dattiloscritti - in quegli anni era prassi battere l'originale mettendovi sotto carta carbone e velina - cosi' che per rimediare, doveva dare prova di precisione certosina reinfilando il foglio nel rullo, alzando la barretta per riallineare la riga di battitura, centrando poi la parte mancante o sbagliata, ribattendo quindi la lettera da cancellare con la striscia correttiva finche' non scompariva, per vedere infine emergere, nera su bianco, la pecorella tornata all'ovile - un'altra pecora nera, come le massesi, le uniche femmine che hanno le corna e purtroppo a rischio estinzione visto che non ne viene usata la lana - la neghittosa vocale o consonante corretta, che riconduceva la frase al suo senso?
Se ci fosse stato il computer, quel laborioso processo le sarebbe stato risparmiato. Le era anche capitato di chiedersi se dietro quegli ostacoli disseminati come mine sul suo periodo di prova, una sorta di iniziazione, non si nascondesse piuttosto un suo invito dissimulato. Ancora non lo aveva visto, non si erano parlati.

"Aiutatevi con la lettura del contesto", cosi' la prof. Chantal spronava i suoi alunni quando li vedeva interrogare il vuoto con occhi opachi e spenti. A Nina era capitato di ricorrere al metodo che l'insegnante non mancava di suggerire durante le verifiche ma quel salvagente non era sempre stato utile per traghettarla alla riva del 6 pieno. Quel giorno, invece, tutte le parole che mancavano all'appello della comprensione si mostravano, a dispetto dei consigli della prof, assolutamente indipendenti dal contesto.
Erano parole gappiste, pensate per una strenua resistenza a tentativi di decifrazione. Parole rampanti, scelte accuratamente nel corso di drammatici breathing. Parole nichiliste che si divertivano a giocare alla roulette russa in scantinati saturi di fumo e tensione. Parole carbonare, che si riunivano in elitari salotti letterari complottanti. Le elette venivano selezionate da un ventaglio tra le piu' ostiche e votate per acclamazione: erano le perfide regine, le kamikaze, le piu' inattaccabili a interpretazioni dal contesto - i buonisti contesti! non mancherebbe qualcuno di deplorare - le amazzoni, le provate teste di cuoio per non dire di peggio, le piu' abili nel saper recintare di fitto filo spinato il minimo varco di interpretazione intuitiva. In che situazione si era mai cacciata? Ricordava che l'annuncio sul Corriere della Sera recitava chiaro:

L'insperata fortuna - al colloquio di selezione avevano chiuso un occhio sull'ottimo inglese - l'aveva riportata in una stanza d'archivio, proprio come ai suoi esordi. In un luogo a lei familiare - tutte le stanze d'archivio in cui era transitata si assomigliavano in modo impressionante, con le loro alte finestre opache per la polvere solidificata negli anni, scrivanie e scaffali che potevano abbracciare un periodo compreso tra gli anni Quaranta e i Sessanta, evidenti scarti dei piani alti, anonimi armadi metallici con schedari estraibili - si ritrovava a impersonare l'inedito ruolo di domatrice di un corsivo a tratti illeggibile, con il compito di riportare la bestia in gabbia, dopo averla ammansita nel font della Lettera 36, un modello che fino a un paio di anni prima era considerato a' la page e di cui ora, con malcelato disappunto, si diceva che faceva solo un gran baccano.
Ricordava il suo incantamento davanti al rutilante tocca e fuggi delle minuscole lettere sulla testina rotante della sua prima IBM Selectric, che impazzavano sul foglio nel corso di fragorose e a tratti all'unisono, battiture a piu' mani nella stessa stanza. Solo dopo un apprendistato di anni, nel suo caso iniziato su un rispettabile catafalco nero, una Underwood del 1920 diventato probabilmente un pezzo per collezionisti, con tasti cosi' alti che andavano non solo pigiati con forza, ma anche centrati bene per non incastrarvi in mezzo le dita, aveva avuto il privilegio di potere digitare con movimenti veloci e leggeri sulle lettere di una macchina elettrica.
Intanto quella continuava a comandare nella stanza, a provocarla con i suoi capricci da diva, almeno fino a che non si fosse decisa a smascherarla. La sfidava attraverso alteri, desueti, specialistici termini che non mostravano di temere l'opposta alternativa del tutto o niente e che senza un fremito d'emozione, venendo alla luce, contemplavano il loro prossimo annullamento oltre l'orizzonte di senso, il tuffo dalla rupe contro un oceano di bianco inchiostro, che le avrebbe assorbite per sempre in un oblio di fonemi, in una versione nichilista da inconscio letterario o che, al contrario, sognavano un destino di gloria, come essere incise nel marmo della memoria per le future generazioni. In tutti i casi loro - e ci faceva entrare scrittura, grafia, lettere, parole - mostravano di non avere nulla da perdere. Gli altri e Nina per prima, erano semplici scrivani.

Al suo ottavo giorno sentiva gia' bruciare la sconfitta, anche se non avrebbe mai rinunciato a quell'incarico, mentre assisteva rassegnata e impotente all'andirivieni delle parole che a loro piacimento si incastonavano nelle righe, interrompendo improvvisamente il movimento orizzontale dei suoi occhi. Per quanto la riguardava, quei righi imbizzarriti potevano continuare a vagare come fantasmi, farsi invisibili dentro vuote nuvolette e peggio per lei se a causa loro avesse continuato a consegnare dattiloscritti intervallati da buchi e vuoti. Se stavano inscenando un suicidio collettivo, sarebbe affondata con loro. Ma le cose non andarono precisamente in quel modo.
Da qualche tempo, infatti, Nina aveva iniziato a dubitare dell'aria di vocazione al martirio - ma non era il suo, piuttosto? - che quelle sbandieravano. "Il troppo stroppia" le ripeteva sua madre in dialetto pugliese. Eppure non si sentiva cosi' sprovveduta, era sicura di essere vicina a un passaggio segreto.
Presa nel turbine di una lotta semi cosciente fatta di assalti, cedimenti, retrocessioni, nella sua caparbia resistenza per arrivare al traguardo del mese di prova dopo il quale, per altri cinque, avrebbe potuto navigare in acque piu' calme, eludeva il soggetto piu' importante. Di questo invece, la scrittura, con la sua esperienza millenaria, sembrava essere ben consapevole, pur nei suoi atteggiamenti da primadonna. Il gioco, pero', non era destinato a durare, la lezione di Luigi Pirandello non sembrava trascorsa invano.
C'era di nuovo che Nina stava iniziando ad assumere una parte da protagonista in quel melodramma di lettura-interpretazione-battitura, anche se a uno sguardo esterno lei sicuramente appariva come un mero strumento al servizio dell'Autore. Memore di un'infarinatura di Storia del Teatro, sentiva di essersi immedesimata piu' del dovuto nel senso delle parole che il capo dirigeva dietro le quinte ma a quel punto toccava a lei prendere il suo posto.
La sua conoscenza del mondo dell'arte si limitava a quanto studiato al liceo serale sui volumi dell'Argan che le aveva regalato il suo ragazzo quando aveva compiuto diciotto anni. Aveva iniziato a frequentare il liceo serale con due anni di ritardo, a causa del biennio professionale per operatrici contabili stenodattilografe a cui il padre l'aveva iscritta dopo le medie e che aveva considerato tempo sprecato.
Non aveva ancora sentito parlare dell'artista Emilio Isgro', che con un pennellino nero in quegli anni stava cancellando tutti i libri che gli capitavano a tiro: bibbie, corani, costituzioni, talmud, ma anche enciclopedie, telex e codici civili. Nina si ritrovava in una situazione opposta a quella dell'artista visivo: disseminava le righe scritte di spazi bianchi, sebbene in modo non volontario. Avrebbe potuto creare un nuovo genere di opere se ne fosse stata consapevole e un giorno, chissa', un vero artista se ne sarebbe preso il merito.

Che fosse stata una messinscena, lo sospettava da un po'. Qualcuno aveva voluto metterla alla prova, ben oltre il mese previsto dal contratto. Forse era stato lui, d'intesa con la capufficio, a pianificare il tutto. Dovevano averla spiata da buchi posizionati strategicamente sulle pareti, nelle ore in cui veniva distaccata in archivio. Per mimetizzarli forse li avevano nascosti dietro a un Concetto spaziale di Fontana, quello con i buchi che disegnavano una spirale o sotto le Attese a cinque tagli. Per vederla meglio.
Pur sospettando di essere controllata, aveva continuato a interrogare silenziosamente i sempre inediti e incomprensibili segni stenografici che la sfidavano ad essere battuti, emissari di un'aliena accademia linguistica, affiliati di un'associazione massonica sottocutanea della Lingua, deviati colonnelli in pensione di servizi ortografici segreti o storpiature dell'ufficiale dizionario De Mauro, messo troppo presto in pensione. C'era pero' un fatto nuovo, lo sentiva come quando annusava l'aria di primavera con un mese di anticipo: la sua costanza l'avrebbe presto premiata.
Arrivata al venticinquesimo giorno di prova, mancavano ancora mercoledi', giovedi' e venerdi' a quello che avrebbe deciso la sua sorte. Con il fine settimana il suo stato ansiogeno sarebbe evaporato e, come nella scena finale del pozzo e il pendolo, all'ultimo momento sarebbe stata liberata dalla tortura e il lunedi' avrebbe segnato l'inizio della sua navigazione col vento in poppa. Anche se non ne era ancora cosi' certa.

 

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primo capitolo Grande Rosso - scrivere
secondo capitolo Grande Rosso - lavorare