Un libro in corso di scrittura di Rosanna Schiattone
 

Si scuoteva dal torpore che l'avviluppava nei momenti di tregua, quando sentiva risuonare il ritmico ticchettio dei passi della capufficio, in un crescendo un po' in sordina a causa del suo sovrappeso e attutiti ulteriormente dalla spessa passatoia del corridoio. Era il segnale che anche per quel giorno la sua fatica poteva considerarsi conclusa. L'indomani, venerdi', avrebbe ricevuto l'agognata risposta.
Sapeva di aver fatto notevoli progressi. Era riuscita a interpretare diverse indomabili creature freak: sgorbi sovrascritti, svolazzi pietrificati in simboli, avviluppamenti con codino finale. Ce l'aveva fatta persino con nomi stranieri, mettendo al posto giusto, per esempio, acca e doppie allo storico dell'arte Jacques Thuillier. Le ci era voluto un po' di piu' per capire che il viticcio alla fine di un nome di tre lettere era la j dell'artista Enrico Baj.
Si districava bene anche tra le parole banali, di uso comune. Quelle generiche, infatti, le risultavano piu' difficili da decifrare rispetto a termini piu' specialistici e sofisticati. Molti non le sembravano nemmeno cosi' indispensabili e se fosse dipeso da lei li avrebbe eliminati ma tale giudizio tranchant lo riservava ad altri. Lui invece sapeva scegliere parole essenziali, quelle giuste, quando dipingeva in modo cosi' impeccabile i suoi pensieri, le sue descrizioni, in punta di pennello. Qualche difficolta' la incontrava ancora nella lettura di vocaboli con finale o radice simile, come potevano essere geme, viene, seme, pene oppure casa, cosa, caso. Allora le tornava utile ricorrere al contesto.
Quel venerdi' tutti sembravano ostentare indifferenza nei suoi confronti, occupati a chiudere il prima possibile le proprie pratiche. I piu' fortunati pregustavano il week end fuori citta', approfittando dello scorcio d'estate che ancora non cedeva il passo alle brezze settembrine. Per lei, invece, quel fine pomeriggio avrebbe potuto riservarle un Gran Guignol.
Anche ai piani alti della realta' parallela, dove aveva ingaggiato per quasi un mese una battaglia donchisciottesca, era un giorno speciale: loro avevano scelto una grassa vittima - non rappresentavano solo suicidi, ma spesso e volentieri un sadomasochismo degno di un von Sacher-Masoch - alla quale avrebbero insufflato il veleno che l'avrebbe di li' a poco storpiata, raccorciata, privata di ogni referenza e riconoscibilita' ai suoi occhi.
Il luogo del sacrificio era stato convenuto alla fine di una recensione su una mostra personale di Sandro Martini e si trovava precisamente nello spazio riservato alla penultima parola dell'articolo, fino a quel momento condotto da Nina in modo impeccabile, se si escludevano sporadiche e invisibili correzioni. Respingere l'attacco finale le stava richiedendo uno sforzo teutonico e si sentiva a un passo dal capitolare, gia' rassegnata a sinistre conseguenze.
Una parola sola si ostinava a non rispondere all'appello e in sua difesa era accorsa un'intera formazione da Brancaleone, che le si era parata davanti per impedirle l'accesso alla camera del trono. Una frase azzoppata, un periodo paralizzato, una desinenza cieca, una preposizione disarticolata, un verbo snervato, l'attendevano al varco con aria agguerrita e minacciosa. Ancora non sapeva quante vittime avrebbe portato con se' la valanga che quei guerrieri male in arnese si apprestavano a provocare ma sicuramente sarebbe stata lei la prima ad esserne travolta.
Annaspava alla ricerca di sostituti alfabetici, con lo stato d'animo che doveva avere avuto Custer mentre ricaricava ansiosamente il fucile contro Cavallo Pazzo, quando gli fu chiaro che oltre a non essere affatto riuscito a circondare Little Bighorn era lui ad essere circondato dai Sioux e dai Cheyenne. Per analogia le era venuta incontro una scena di Magnifica preda, il film che aveva visto la sera prima in televisione, dove Robert Mitchum cercava spasmodicamente di ricaricare la carabina, mentre il figlio gli urlava che il cinturone era vuoto e intanto altri indiani con i colori di guerra dipinti in faccia iniziavano a sciamare nell'impetuoso fiume disseminato di rapide per attaccare la rudimentale zattera con la famigliola fuggitiva. L'incantevole Marylin Monroe, senza trucco per tutto il film - era rimasta in canottiera di pizzo dopo avere affettato la camicetta per farne bende per il compagno ferito - e con impeccabile grazia si destreggiava nella corrente manovrando il palo tra le acque, come se fosse sul Canal Grande, ogni tanto scostandosi i ricci che il vento le soffiava sugli occhi. Uno stato simile lo aveva provato al mare, da bambina, quando le era parso di annegare solo perche' toccava con la punta dei piedi.
Le immagini dei perdenti - e Akira Kurosawa in Kagemusha - l'ombra del guerriero, gliene aveva regalata una tra le piu' potenti - le erano state di conforto da quando il suo ragazzo l'aveva lasciata e nell'attuale, angosciosa sensazione di precipitare nel vuoto le venivano in soccorso. Ma lo spazio alla fine della frase rimaneva intonso.
Sarebbe stata travolta dalla rapida e inghiottita per sempre nei suoi gorghi, sprofondando nella sabbia con poco piu' di un metro d'acqua, perdendosi in un deserto con una sola pista da seguire, quella che non era stata in grado di capire dove si fosse mai cacciata. Aveva le stesse chance della prima mossa di un cruciverba a schema libero, di quelli che solo gli iniziati hanno vaghe possibilita' di sbrogliare dopo anni di allenamento all'ossimoro: un'apparente, massima liberta' di movimento che contempla la piu' ferrea osservanza a invisibili leggi. Oltretutto lei odiava La settimana enigmistica.
Non era piu' come una volta, quando una madre poteva frugare con aria anticipatamente vittoriosa nella scatola del cucito alla ricerca della pezza che avrebbe camuffato il buco sui gomiti della giacca o sulle ginocchia dei pantaloni, rendendoli alla moda, quando si sapeva che quegli accomodamenti servivano a tamponare i periodi di crisi. Essendo incontestabile che le madri hanno sempre ragione, per alcuni anni si erano effettivamente usati calzoni e giacche con le toppe pensando che fossero davvero di moda. Era stato un altro periodo finito nel dimenticatoio.
Il trionfo di Nina Rovere sarebbe stato ufficializzato un paio di ore dopo il suo rientro dall'intervallo di pranzo ma ancora non lo sapeva. Per un po' si era impedita di pensare alla parola mai letta o udita che aspettava di essere trascritta nell'unico spazio rimasto bianco alla fine della recensione. Aveva provato con le iniziali p, f, d, ma non ne era uscito alcunche' di comprensibile, in nessuna delle combinazioni che aveva tentato. Aveva letto e riletto cento volte la frase che terminava sul bordo del dirupo e ancora non le era venuto in mente niente di niente.
L'articolo che attendeva la risoluzione dell'enigma per essere spedito alla rivista NAC - Notiziario di Arte Contemporanea, dove sarebbe stato pubblicato, per la sua fine qualita' era stato posto da Nina, insieme a pochi altri, nel suo empireo personale. La prosa era pulita, gli incisi generavano squisite metafore, gli affondi e le circonvoluzioni disegnavano i pensieri con tratto sottile ed elegante e le facevano venire voglia di ammirare dal vero le opere di Sandro Martini - un altro fra i troppi nomi a lei sconosciuti, dato che il programma liceale di quinta non si era avventurato oltre le avanguardie storiche - che immaginava intessute di fantasia, grazia e leggerezza.

La professoressa Fontanesi, un'altra figura ricorrente quando ripensava agli anni del liceo, si era fatta tristissima la sera in cui le aveva chiesto cosa ne pensasse dell'arte contemporanea. "Dopo Kandinsky e Picasso sono seguiti solo furbacchioni e lestofanti" aveva declamato in modo perentorio la canuta insegnante, in modo stranamente distante dalla dolce vocina da nonnina che la contraddistingueva" e, fatto ancora piu' riprovevole, questi cosiddetti artisti moderni hanno minato le basi etiche dell'Arte, pensando solo ad arricchirsi". Si era cosi' accalorata nell'esporre il suo inappellabile giudizio, mentre lanciava il suo anatema verso i "lestofanti", che la sua voce si era andata incrinando in una serie di note stridule, sfiorando pericolosamente un tono isterico. Non se lo sarebbe mai aspettato da una figura cosi' mansueta.
Aveva voluto bene alla prof di Arte, che l'aveva incoraggiata molto nel disegno ornamentale e, per non darle un dispiacere, non aveva piu' insistito sul tasto dell'arte moderna, che pure la incuriosiva, anche se non possedeva argomenti sufficienti per controbattere a una scomunica cosi' definitiva. Aveva pensato, tuttavia, che qualcosa di vero doveva esserci in quella visione da waste land che l'insegnante le aveva dipinto, abitata da falsi, imitatori, tirarighe senz'anima e profittatori. Cosi' quella sera aveva assunto un'aria meditabonda mentre finiva di colorare con i gessetti il ritratto a mezzo busto di un mercante rinascimentale di autore ignoto ed era rimasta pensierosa anche dopo averlo terminato, nonostante i compagni l'avessero elogiata per la sua bravura, riservando addirittura un posto d'onore al suo ritratto, che fu attaccato sul muro in fondo all'aula. Ricordava che non lontano c'era la scritta a pennarello Amendola con le orecchie a sventola, che aveva notato la prima sera di scuola. Erano anni in cui gli scontri politici e generazionali non risparmiavano proprio nessuno. Pochi anni dopo avrebbe letto su l'Unita' la notizia della morte dell'ex partigiano comunista e il giorno successivo avrebbe pianto alla notizia che la moglie di Giorgio Amendola non avendo retto al dolore, aveva seguito il marito 24 ore dopo la sua scomparsa.

Lo stile del suo capo si alzava di varie spanne sulle metafore di maniera e sulle circonvoluzioni di cui la maggior parte dei critici d'arte faceva sfoggio sulle riviste di settore e nelle pagine culturali dei maggiori quotidiani. Intanto non aveva ancora trovato una toppa al dattiloscritto e non sospettava nemmeno quanto fosse vicina la soluzione al suo problema. Non immaginava che avrebbe ringraziato un'altra volta il liceo serale, che, una volta fuori dalle sue mura, si dimostrava uno scrigno di risorse inestinguibili ma anche il professor Reguzzini, i cui voli pindarici lo facevano vibrare in tutta la persona quando recitava con voce baritonale i canti della Divina Commedia.
Durante la pausa le era scivolata dal libro che stava leggendo una cartolina. Gliel'aveva spedita da una sua vacanza Agata, la sua vecchia compagna di banco con cui si era vista quell'estate a Tortoreto Lido, dove, finita la maturita', aveva raggiunto il marito con il figlio nato da poco. Avevano condiviso alcuni ricordi del liceo e avevano rievocato l'immagine del roboante e gesticolante prof di Italiano. L'amica, pero', ne conservava un'altra, piu' inedita, legata a una volta in cui l'insegnante aveva recitato una poesia di Montale, con un tono sommesso ed eccezionalmente malinconico per il suo usuale carattere sanguigno. Dopo avere ripescato la sua vecchia edizione degli Ossi di seppia da uno scaffale con i libri in terza fila, l'aveva trovata. Si intitolava Cio' che di me sapeste.
Nina non aveva aspettato oltre ed era sfrecciata dal segretario del Super Capo, chiedendogli le chiavi della vetrina per poter consultare il volume delle poesie di Montale dalla biblioteca cui i dipendenti avevano libero accesso per ricerche e consultazioni di lavoro ma anche per coltivare i propri interessi.
Aveva scorso l'indice e dopo aver individuato la poesia l'aveva letta d'un fiato, soffermandosi sulla parte che cercava:

Ed era forse il telo
l'azzurro tranquillo;
vietava il limpido cielo
solo un sigillo.

Overo c'era il falo'tico
mutarsi della mia vita,
lo schiudersi d'un'ignita
zolla che mai vedro'.

Era tornata alla macchina da scrivere e in un attimo aveva riempito l'ultimo spazio vuoto facendo vittoriosamente seguire il punto alla frase di chiusura. Aveva quindi consegnato la carpetta alla capufficio, che a sua volta aveva avvisato il capo, impaziente di rileggere l'articolo che l'amico Vincitorio doveva mandare in stampa. Era stato in silenzio il tempo necessario per scorrere i quattro fogli dattiloscritti, facendo ogni tanto un cenno di approvazione con la testa e alla fine le aveva rivolto uno dei suoi rari e disarmanti sorrisi.
Subito dopo aveva chiesto alla capufficio se fosse pronta per la firma la lettera di conferma per la signorina Rovere. Quella, premurosa, gli aveva risposto che l'aveva inserita nella cartellina sulla scrivania, che si trovava nel suo bellissimo studio ovale in mogano. Nina aveva sentito il cuore batterle all'impazzata e poi continuare per cinque minuti buoni. Le era anche scesa una lacrima, che si era affrettata ad asciugare con la mano, come commosso omaggio al dono postumo del prof di Italiano. Si era poi impressa a memoria la frase che chiudeva lo scritto del suo capo su Sandro Martini:

Questo piu' o meno, fino ad oggi, il mondo di Sandro Martini, quale fuoriesce dalle pagine versicolori del suo falo'tico diario.

Con il passare dei mesi, Nina si era convinta che un nesso intimo collegasse la scrittura del dottor Corda con la sua passione per l'arte. Ne avrebbe avuto conferma durante il suo terzo mese di lavoro. In quel periodo, infatti, lui aveva scoperto una serie di opere che lo avevano cambiato, donandogli un'aria sognante e rilassata, come mai gli aveva visto. Aveva gia' ammesso la sua tendenza a interpretare in modo un po' troppo personale cio' che esulava dalle sue competenze impiegatizie, ma era indubitabile che correva un'affinita' speciale tra il suo capo e i quadri che lo avevano conquistato e poi fatto capitolare, proprio come si cede a una passione amorosa.
Erano opere di piccolo formato, accomunate da qualcosa che Nina riconosceva bene: metamorfosi, accoppiamenti, duetti, polifonie che le lettere intrecciavano tra loro e a volte con le immagini, creando simboli linguistici, figure geroglifiche, pittocalligrammi, animali parlanti, pensieri animati. Anche per lei era stata un'illuminazione, la prova che non soffriva di allucinazioni. Significava che quel mondo a parte esisteva davvero ed era considerata arte.
In seguito i critici, per loro comodita', avrebbero riparato quella tendenza che presentava origini, poetiche, regole molto differenti tra loro, sotto un ombrellone che le comprendeva tutte, denominandola scrittura visiva, anche se quel termine sarebbe stato usato per opere con caratteristiche piu' specifiche. L'ombrellone avrebbe comunque funzionato sia per il pubblico sempre in cerca di nuove emozioni, che per gli artisti a caccia di visibilita'. Le distinzioni all'interno di quella categoria artistica si potevano, in ogni caso, trovare nei testi di qualche docente dell'Accademia di Belle Arti - obbligatori per gli esami - o degli stessi artisti che ne avevano coniato la poetica, come Sarenco, Ugo Carrega e Lamberto Pignotti.
Il capo era stato preso dal classico colpo di fulmine, che lo aveva portato ad acquistare l'intera esposizione della piccola galleria di via Borgonuovo, che era piu' che altro uno studio d'arte a cui era stato dato il nome accattivante di Mercato del sale. Il proprietario lo aveva invitato a darvi un'occhiata prima del vernissage. Il biglietto gli era stato recapitato a mano e Nina lo aveva messo nella cartella di cuoio della sua posta personale. Riportava solo una breve frase, allusiva e scherzosamente deferente, come usano gli amici quando scherzano e si divertono a tenere l'altro sulle spine. Il tono era volutamente caricato e vi aleggiava una specie di sfumatura proibita. Non era avvezza a manifestazioni di furore collezionistico, non poteva immaginare gli spasmi e i batticuori che un'opera sa provocare al compratore alla prima occhiata e che gli fanno decretare che quel quadro e' gia' suo. Aveva semplicemente pensato che tra i due doveva esserci una frequentazione amichevole e magari un po' fuori dal comune. Il biglietto era firmato Ugo Carrega.

La scrittura visiva era una tendenza artistica che si era affermata anche internazionalmente tra gli anni '50 e '60 e alla fine dei '70 conservava una dignitosa posizione di nicchia e di mercato. Ultimamente, pero', i mercanti d'arte puntavano a ben piu' concreti e quotati manufatti. Le storiche e gloriose gallerie del centro non rincorrevano piu' i poeti sognatori, gli artisti cappelloni impellicciati di lana di agnello, corteggiati da galleristi in doppio petto con accanto consorti piu' o meno ufficiali in aderenti vestitini neri in stile post-esistenziale o di lame', con alte acconciature cotonate e trucco bistrato da Cleopatre.
Stavano tramontando i tempi delle sfide alla civilta' dei consumi e alla cultura ufficiale, lanciate a rischio di spuntare le proprie stesse armi o spesso a costo zero come nei de'collage - strappi eseguiti ad arte di manifesti pubblicitari, meglio ancora se di film - rubando i vestiti all'imperatore, permettendo di toccare modelle nude, innalzando l'arte nei luoghi piu' umili e nelle forme meno altisonanti. Un pezzo di carta minuta quadrettata e il conto della trattoria potevano diventare opere d'arte. Bastavano azioni minime, un nome scritto a biro, due parole che finivano in svolazzi e per firma uno sbaffo di colore, per fare volare alta la mente, in un mondo piu' semplice, armonico, arguto, polemico, colto, che appena sognato non esisteva gia' piu'.
Anche Nina si era entusiasmata per quel genere di opere che aveva visto per la prima volta visitando la piccola galleria-studio in una delle sue pause pranzo. Le aveva trovate poetiche e sarcastiche, ironiche e graffianti, convenendo che implicassero un'elegante e sottile denuncia alla societa' dei consumi. Le erano sembrate persino un po' orientali, come le poesie Haiku di cui le aveva parlato il suo ragazzo e che si era affrettata a comperare in un Oscar Mondadori alla piccola libreria di piazza Sant'Eustorgio, dove aveva ordinato anche quelle di Ginsberg e Ferlinghetti.
Il mondo dell'arte, intanto, si rinnovava e per fare spazio si riempivano scatole da sistemare in archivio per le ricerche dei posteri. Era stato dato uno stop ai cataloghini prodotti in casa, stampati a mano e alle notti interminabili a discutere di sinestesia delle arti declamando poemi senza punteggiature. Si poteva lasciare in pace per un po' il futurismo, rispolverato ad ogni pie' sospinto e anche l'abolizione delle maiuscole aveva fatto il suo tempo. Si sentiva il bisogno di una tregua da riunioni, happening, incontri filosofici e di autocoscienza, dai palloncini gonfiati con il fiato d'artista, dalle uova soda mangiate dopo aver conservato il guscio con l'impronta del pollice dell'autore come firma e dai gonfiabili che ostruivano l'uscita degli operai dalle fabbriche.
Un po' di damnatio memoriae avrebbe fatto bene a tutti. Un giorno gli artisti si sarebbero ritrovati a guardare, comodamente seduti sui divani di un museo, come a una riunione di famiglia allargata, le fotografie in bianco e nero dei Natali dell'arte, quando, sopravvissuti al dopoguerra, sorridevano virilmente nell'unico cappotto della festa. Con il premio ci avrebbero fatto la spesa e portato a casa la lavatrice o il frigorifero.
L'Arte era tornata in via Manzoni e strade limitrofe ma si era blindata, qualche volta usciva per una breve passeggiata, appoggiandosi al braccio di battitori d'asta o ai bastoni da passeggio di scaltri galleristi, attenta a nutrirsi nei ristorantini di via Fiori Chiari, dove non ti fanno ingrassare. Andava a gonfie vele, nei giorni in cui il suo capo aveva perso la testa per dei foglietti a malapena incorniciati, acquistandoli tutti.
Lui si sarebbe schernito, spergiurando che non c'entrava proprio niente con l'arte, che era solo un banchiere, un collezionista per caso e non aveva mai disegnato un albero o un fiore in vita sua, non aveva mai posseduto la minima nozione coloristica. Avrebbe ammesso che l'arte la guardava, piuttosto, la studiava, questo si', dal palchetto privilegiato che gli aveva riservato il Presidente. Ma non gliel'avrebbe data a bere: lui non era certo un voyeur. Era un altro suo depistaggio, perche' si era convinta che il suo capo fosse proprio un artista e che proteggesse i suoi tesori dietro a un baluardo di timida segretezza.
Se lo immaginava nei dopocena a studiare, a sfogliare riviste, a prendere appunti, affinando gli strumenti avrebbero fatto nascere un'opera meravigliosa. Ne era sicura, come era sicura che anche lui ne fosse ben cosciente, pur non essendo disposto ad ammetterlo. Non era forse dovuto a doti visive, quel suo vezzo di evidenziare titoli e sottotitoli, paragrafi e sotto paragrafi, con matite di colore rosso, blu e verde? Non era forse un sintomo artistico quel suo modo cosi' analogico di categorizzare, schematizzare, ricorrere a grafici, linee cronologiche colorate che ritagliava, incollava e archiviava nelle sue cartellette?
Forse anche lui era debitore verso il liceo, per quel modo originale, visivo, di documentarsi, schedare, per avere a portata di mano dati a cui attingere per scrivere, per quella maniera artigianale di cercare, studiare, memorizzare. Quelle modalita' la rassicuravano, ci si trovava. Si era convinta che doveva essere proprio cosi' che lavorava un artista.


 

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primo capitolo Grande Rosso - scrivere
secondo capitolo Grande Rosso - lavorare